Spesso, come speleologi, ci sentiamo chiedere da conoscenti abituali o occasionali, con diffidente curiosità: «Cosa andate a “fare” in grotta? Cosa c’è di tanto interessante da stare tutto quel tempo là sotto?». Una volta tentato di chiarire la questione, spesso la domanda diventa «Perchè??!!».
Come risposta a questi quesiti, vogliamo condividere una lucida ed appassionante analisi di Giovanni Badino sulla nostra attività di speleologia. Sicuramente riflessione migliore e più convincente non sapremmo esprimere.
Giovanni Badino, speleologo, grande esploratore, professore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino, purtroppo è venuto a mancare recentemente. È stato senz’altro uno tra i più grandi interpreti della nostra attività e come nessun altro ha probabilmente saputo raccontare cos’è la speleologia nelle sue più svariate sfaccettature. Ha saputo raccontare anche a noi speleologi, in tante occasioni, cosa effettivamente “siamo”. Con le sue numerose pubblicazioni e nei suoi innumerevoli incontri pubblici ha forgiato e segnato la rotta per tutta la nostra “tribù speleo”. Spaziando in ogni confine della speleologia, ha esteso questo oltre la comunità speleologica stessa. Per tutto ciò che ha lasciato, molti di noi saranno per sempre a lui grati. Potremo a lungo attingere ai suoi insegnamenti, come si attinge acqua fresca che sgorga da una sorgente, acqua che per molta parte della sua vita ha rincorso nei suoi incredibili viaggi sotterranei.
Le tre dimensioni degli abissi sotterranei
di Giovanni Badino
(dall’introduzione di Gli abissi italiani, di Giovanni Badino e Roberto Bonelli, Zanichelli, Bologna, 1984)
“Non ti fare nessuna scultura né immagine delle cose che splendono su nel cielo o sono sulla terra o nelle acque sotto la terra (Esodo, 20-4)”.
Le acque sotto la terra.
In certe condizioni modificano la forma delle montagne in modo nascosto, insospettabile dall’esterno. Scavano immani reticoli di vuoti grandi e piccoli, li riempiono di frane e di depositi, li risvuotano, li fanno crollare e approfondire in un lavorio incessante in un mondo tridimensionale ed oscuro. Tracce di questo lavoro arrivano fino alla superficie; le rocce sono incise dalla dissoluzione chimica, appaiono depressioni, manca un ordinato reticolo idrografico, ogni tanto la continuità della superficie del monte è rotta in buchi da cui affiorano le tenebre che riempiono tutte le montagne: e ogni tanto di lì si può entrare a guardare il mondo delle acque sotterranee.
Da sempre sono noti questi affioramenti di tenebre, da sempre sono stati loro attribuite le caratteristiche più nascoste e incomprese della vita quotidiana. L’immaginazione li ha riempiti di abitatori, in genere malvagi: le streghe abitano gli antri, non i prati assolati. Sono diventati la prosecuzione diurna delle paure della notte, il luogo di rifugio degli incubi quando l’aurora appariva a scacciarli. Se il diavolo abitasse sulle nuvole sopra le nostre teste, al sole, forse farebbe troppa paura: meglio relegarlo al di sotto di noi, separato dalle rocce in un mondo che ci sia totalmente, radicalmente estraneo.
Queste sono le caratteristiche fondamentali dell’idea di abisso: estraneità e pericolo per chi vi si inoltra. L’abisso è l’ostruzione invalicabile e inattesa sulla nostra strada: non è un nemico contro cui battersi ma è fatale per il nostro mondo, ineluttabile. Essere sull’orlo dell’abisso.
La stessa parola “abisso” significa senza fondo e lo si può ben percepire quando, da speleologi, lo si cerca chiedendone indicazione agli abitanti dei luoghi: se c’è, la sua caratteristica fondamentale è l’essere di profondità indeterminata e, in genere, di andare comunque al di là dell’ambito immediato in cui si apre. Gli animali che vi cascano vengono ritrovati, nelle leggende, a distanze grandissime, spesso pazzi per aver percorso le vie dentro le montagne.
Agli abissi si associa l’estraneità: percorrerne un tratto vuol dire smarrirsi perché la nostra mente non può ritenere memoria di ciò che le è estraneo. Ed anche la respirazione, là sotto, dev’essere impossibile: quasi tutti chiedono agli speleologi se, laggiù, si respira, senza chiedersi di che cosa, allora, dovrebbero essere piene le grotte se non di aria di montagna.
Estraneo dunque pericoloso: questa è la posizione tipica degli esseri umani e di tutti gli altri animali. Ma in noi ce n’è anche un’altra, più sottile e più ricca che ci ha fatto diventare dominanti, o quasi, sulla Terra: estraneo, dunque interessante. È la posizione dell’Ulisse dantesco, la soddisfazione della curiosità di ciò che è diverso a qualsiasi prezzo: essa ci ha dato virtualmente tutto ciò che possediamo come specie e anche nel microscopico ambito delle tenebre nei monti si è fatta valere. Accanto alle minacce nell’abisso ci sono le leggende dei tesori, premio per chi vi si inoltra e sa tornare fuori: accanto alle tenebre che ci respingono ci sono le tenebre che ci fan chiedere: “cosa ci sarà?”.
Questo stimolo è sempre stato vivo e, da quando la superficie del pianeta è diventata, virtualmente, esplorata, è nata e si è strutturata la ricerca ed esplorazione sistematica delle cavità all’interno delle montagne.
Le parti percorribili dei vuoti senza nome sono allora diventate gallerie, meandri, pozzi, sale, strettoie; hanno assunto forma umana: continuano e finiscono, sono freddi, silenziosi, pieni di frastuono, bagnati, deserti, fossili, colorati, bui, assolutamente bui. Un intero mondo a sé tutto da scoprire.
La speleologia si occupa della conoscenza di questo mondo sotterraneo: questa affermazione trova concordi tutti i suoi adepti che però sono individualmente assai divisi su cosa significhi esattamente conoscere un mondo. Alcuni lo limitano a una conoscenza individuale e si accontentano delle visite, più o meno sportive. All’opposto, altri pretendono di inserirlo nel processo scientifico e limitano il concetto di speleologia all’applicazione dei paradigmi delle scienze ufficiali al mondo sotterraneo.
A noi sembra più adeguato vedere la speleologia semplicemente inserita nel processo conoscitivo umano: se vi dedicate con sistematicità all’impresa di esplorare il mondo sotterraneo documentandolo e descrivendolo meglio che potete e se, insieme, le acque sotterranee scavano un reticolo nella vostra mente, allora siete speleologi. Specificare di più forse è inutile, farebbe perdere a questa attività il fascino che hanno le sue infinite sfaccettature.
Il mondo sotterraneo ha dal punto di vista economico e scientifico ben poco interesse. Solo accidentalmente il lavoro dello speleologo è utile alla società: in genere ci si vanta della ricerca delle acque sotterranee ma di norma per queste è più che sufficiente il lavoro esterno di un idrologo intelligente. E anche la ricaduta scientifica dell’attività speleologica sulla geologia è ben piccola, se pure c’è: il flusso di informazioni in genere procede al contrario, tende cioè ad essere la geologia che chiarisce certe condizioni di sviluppo delle cavità.
Ma il mondo sotterraneo ha interesse in sé in quanto mondo, tanto più affascinante quanto più insospettato e a pochi metri dall ’esterno. È fatto di roccia, aria e acqua e, come le alte montagne, è assolutamente estraneo agli esseri umani: non ostile, diverso. Non si lotta con il crudele Everest per raggiungere la cima e sconfiggerlo: si lotta con i limiti della propria natura, a priori inadatta, per immergersi a fondo in un ambiente anomalo e perfettamente indifferente, in questo caso il percorso fino alla vetta. Sottoterra si opera con atteggiamento identico, cercando di modificarsi fino ad essere in equilibrio con posti perfettamente estranei. E in questo senso che più sopra abbiamo parlato di reticoli di acque sotterranei nella nostra mente.
Altre cose ancora, evidenti ma marginali, accomunano la speleologia all’ alpinismo in quota. Parliamone, chiarendo così indirettamente che cosa sia la speleologia.
Si ha a che fare, in entrambe le attività, con salti di roccia: gli strumenti con i quali li si affronta sono analoghi anche se l’atteggiamento con il quale li si usa è diverso: gli alpinisti di massima usano corde ed attrezzi per proteggersi, gli speleologi di massima li usano per spostarsi. In entrambe le attività si arrampica. In entrambe le attività il nemico essenziale è il freddo anche se quello che gela gli alpinisti, profondo e secco, è diverso da quello non grande ma umido che sfianca gli speleologi. Inoltre, essendo le grotte in montagna, capita che per raggiungerle gli speleologi superino delle difficoltà alpinistiche. Soprattutto entrambe le attività vogliono umanizzare, percorrendoli, degli ambienti estranei: più si è bravi, più vasto si fa l’ambiente percorribile. Speleologi e alpinisti hanno il loro mondo tanto più grande quanto più son capaci di superare le difficoltà.
Ma a rendere le due discipline radicalmente diverse v’è il fatto che l’alpinista sa dove andrà a passare e lo speleologo no: e questo ha conseguenze tanto grandi che parlare, giornalisticamente, della speleologia come alpinismo all’ingiù è ridicolo. L’ambiente dello speleologo prima che lui ci metta piede, non esiste: la montagna per l’alpinista è lì, tutta intera con l’aria di aspettare che qualcuno osi scalarla. L’ambiente, anche mentale dello speleologo è l’oscurità, l’ignoto; quello dell’alpinista la difficoltà. L’alpinista serio tende a cacciarsi in imprese che mettono alla prova le sue capacità di superamento di ostacoli; lo speleologo invece tende a esplorare senza richiedere, a priori, di essere impegnato seriamente nell’avanzata: anche lui sarà lieto di essere stato abile a superare ostacoli, ma questi erano un semplice accidente, non il fine dell’esplorazione. Lo speleologo è un geografo. Si immagini un continente pieno di montagne di ignote dimensioni, sempre immerse nelle nebbie: se l’alpinismo fosse vagare in questi posti scalando alla cieca, vedendo solo cinque metri attorno, disegnando e rilevando i percorsi, le vie alternative, misurando vette nel buio, scoprendo pareti, valli, connessioni fra le montagne, allora effettivamente la speleologia sarebbe alpinismo al ’ingiù.
L’alpinista è sempre sovrastato e dominato dal cielo, con i suoi cicli meteorologici e temporali; il cielo dello speleologo è roccia immutabile: il tempo, giù, non c’è; anche questo ha importanti conseguenze sull’ atteggiamento mentale di chi vi scende. E ancora: il mondo dell’alpinista è fatto di una superficie, per quanto accidentata, quello dello speleologo di volumi. La percezione di questa tridimensionalità è faticosa e difficile: gli esploratori sotterranei più bravi sono quelli che meglio riescono a sentire il “volume” attorno a sé, liberandosi della sensazione che la grotta debba svilupparsi, come il loro cammino, su un paio di dimensioni.
Quanto detto ci basta per dare un’idea dell’atteggiamento psicologico degli esploratori del mondo sotterraneo. Passiamo ora più specificamente a quest’ultimo: seguiamone le linee di formazione.
Le grotte si sviluppano all’ interno di rocce solubili in acqua: essenzialmente nei calcari, secondariamente nei gessi. La storia di un sistema di abissi comincia, in sostanza, quando la roccia che li conterrà emerge dal mare ove si è formata. Le precipitazioni dell’esterno la martellano, si infilano nelle fessure, diaclasi, faglie formate nella massa rocciosa dalle spinte tettoniche. Tutto il reticolo di fratture è dunque imbibito d’acqua. Da sopra continua a filtrarne, da qualche parte dunque deve uscirne. Appaiono sorgenti nei punti più bassi in cui il reticolo affiora all’ esterno, ecco che si è formato un circuito: entra acqua dappertutto nella massa rocciosa, che per ora può essere un pianoro, e sorge in qualche punto preciso. Mentre la roccia si muove e diventa monte o altopiano, l’acqua continua a filtrare, a scorrere lentissimamente, in pressione. A poco a poco l’acqua solve la roccia, si formano condotti via via più larghi che diventano pian piano preferenziali per lo scorrimento. Versando un bicchiere d’acqua su di un pendio sabbioso si osserva, su due dimensioni, un fenomeno analogo: dopo una zona di drenaggio diffuso si formano dei rivoletti che smaltiscono tutta l’acqua che continua a passare. Analogamente all’ interno delle montagne il reticolo fittissimo delle fratture drenanti diviene un più semplice reticolo di gallerie sotto pressione, un reticolo freatico. Lo scavo avviene sott’ acqua in condizioni quindi in cui l’effetto della gravità, direzionale, è assai più debole di quello della pressione, isotropa; non solo le gallerie tendono dunque ad essere circolari, ma anche il reticolo si diffonde in tutta la montagna: l’acqua per percorrere il cammino da dove sparisce sotto terra alla risorgente può salire e scendere diverse volte.
È questa la fase in cui è più netta la differenziazione dal tipo di idrografia esterna, è la fase di formazione del mondo sotterraneo. In questo periodo le gallerie, ancorché di vari metri di diametro, sono virtualmente impercorribili, perché sommerse. Ma il mondo, fuori, continua a cambiare. Le valli vengono incise, le montagne si alzano e dunque il reticolo può venire a trovare nuove possibilità di sbocco sotto le vecchie sorgenti. Man mano l’acqua passa ed ingrandisce le nuove uscite finché la portata che è possibile alla sorgente diventa più grande della quantità d’acqua che viene drenata dal reticolo freatico: il livello di acqua nel monte inizia allora a calare, le gallerie freatiche iniziano ad emergere, il monte si riempie d’aria.
L’acqua continua a percorrere vie sotterranee, ma, questa volta, sotto forma di ruscelli, torrenti, fiumi: lo scavo, prima esteso in ogni direzione, diviene verticale, si scavano canyon, meandri e pozzi sulla base del reticolo freatico iniziale. Dopo un po’ la struttura interna del monte è cambiata, su questo reticolo si innesta un sistema scavato gravitazionalmente, detto vadoso.
Il percorso dell’acqua nel monte è dunque, in genere, una lunga caduta quasi verticale lungo fessure via via più grandi, un eventuale percorso a torrente sub-orizzontale fino a sparire in un sifone al di sotto del quale il monte, traforato da un reticolo freatico, è pieno d’acqua. In qualche posto lontano poi, il reticolo sommerso trabocca l’acqua all’esterno.
Nel caso generale dunque, se c’è un ingresso, lo speleologo scende pozzi sempre più bagnati, comincia ad arrivare a zone di gallerie, l’antico freatico, che forse lo collegano ad altre serie di pozzi parallele a quelle di discesa, arriva alle gallerie attive più basse e si ferma di fronte ad un sifone. Se lo passa, cosa che avviene di rado, può al limite raggiungere le grotte orizzontali, se ci sono, che portano l’acqua fuori.
Ecco dunque che si possono incontrare: abissi, semplici e verticali; sistemi di origine freatica, estremamente complessi; grotte risorgenza, complesse ed orizzontali, spesso accessibili e dunque spesso turistiche. Naturalmente le grotte reali sono in genere combinazioni di tutte queste componenti distinte.
Quello che vogliamo far notare è che tutte le grotte che in qualche momento dei tempi passati hanno gettato acqua nella stessa sorgente sono in realtà uno stesso enorme complesso. Noi di questo, per i nostri limiti sia tecnici che fisici, ne vediamo dei frammenti disordinati. Viste da noi le grotte sono le singole parole della pagina di un libro: parlare di queste è dunque importante, ma assai più significativo è riuscire a vederle nell’insieme della pagina, nell’insieme del monte, afferrarne il discorso globale. Questo è molto più difficile ma è estremamente più potente dal punto di vista esplorativo e soprattutto è più giusto: in questo libro ci proporremo di farlo ogni volta che sia possibile.