Macedonia 2019
Quest’anno alle varie attività avviate in passato e alle nuove programmate, è nostra intenzione affiancare l’esplorazione e la documentazione di due siti estrattivi minerari già individuati gli anni precedenti. Inoltre, questa spedizione, alleggerita dai doverosi e importanti incontri istituzionali che molto ci avevano impegnato e condizionato l’attività della spedizione nel 2018 (Progetto UNDP), riprende con carattere decisamente più esplorativo, tanto che i risultati sotto questo profilo non tardano ad arrivare.
Il giorno 11 agosto, imbarcandoci ad Ancona in direzione Igoumenitsa (Grecia), inizia la nostra quarta spedizione in Macedonia del Nord. Di seguito un report delle attività svolte nel 2019 per i vari siti d’interesse.
foto notturna del campo speleo a Mavrovo (sinistra),
attività di scavo (destra)
MAVROVO
Nonostante i numerosi fronti esplorativi aperti, decidiamo tuttavia di non abbandonare definitivamente le ricerche nel parco di Mavrovo, un grande massiccio di oltre 500 km2 e alla cui sommità si estende un altipiano di oltre 150 km2. Qui, tra valloni, pianori e picchi dolci che oscillano tra i 1600 m e i 2095 m del monte Bistra (la vetta maggiore) si sono concentrate molte delle nostre ricerche negli ultimi anni. Sin ora le “porte” della montagna individuate purtroppo, per quanto grandi e promettenti, si sono sempre rivelate occluse da enormi frane e detriti. In questo paesaggio meravigliosamente bello e sconfinato, ricco di polje, doline e inghiottitoi, un antico ghiacciaio ormai scomparso ha fatto la sua parte, triturando tonnellate di roccia e ridistribuendone i frammenti, nel corso del suo lento e millenario movimento, in ogni angolo della superficie. Erosione superficiale e tempo hanno poi fatto il resto regalandoci uno scenario incantato, che oggi ci fa sognare di poter percorrere un giorno antiche vie scavate dall’acqua e celate nel suo ventre.
I dati da noi raccolti in questi anni, infatti, ci portano a ipotizzare la presenza un grande sistema di gallerie celato nel sottosuolo. In particolare, a stimolare la nostra fantasia è stato il ritrovamento nel 2017 di uno pseudo-scorpione nella Grotta Belul, da noi rinvenuta nel 2016 sopra Mavrovo. Nel 2018 un successivo campionamento di più esemplari e il conseguente studio da parte di uno specialista ne hanno permesso la classificazione. I risultati emersi sono stati per noi sorprendenti. Gli esemplari raccolti, infatti, non risultavano relativi ad una nuova specie, ma erano già stati rinvenuti e segnalati sempre in Macedonia: non nella Grotta Belul, bensì in una grotta da tempo conosciuta, esplorata e documentata dagli speleologi macedoni chiamata Alilica, in quella che secondo noi può essere una delle risorgenze del sistema ipotizzato. Inoltre, dalla parte inferiore della grotta, che si sviluppa su due livelli sovrapposti, fuoriesce un torrente con una portata stimata in circa 1,5 m3/s. Ma la cosa che più ci sorprende è che Alilica si apre ad una quota altimetrica oltre 600 m più in basso di un inghiottitoio da noi individuato nel 2017, che abbiamo denominato Goja Ujkut e che si presenta come un pozzo profondo circa 15 m chiuso da frana. Alilica – e questo è il dato più interessante – dista inoltre 4 km in linea d’aria da Belul, dove abbiamo trovato e campionato lo pseudo-scorpione!
Questo “involontario” tracciante biologico ci ha spinti quindi a tentar di disostruire un piccolo buco soffiante una notevole aria fredda individuato nel 2017 sul monte Bistra, esattamente a metà strada tra la grotta di Alilica e quella di Belul. La speranza è di trovare un piccolo passaggio che possa bypassare le grandi frane che sino ad ora hanno reso vani i nostri tentativi di esplorazione sotterranea. Purtroppo, lo scavo si rivela decisamente faticoso e complesso e impegna tre componenti del nostro gruppo per quattro giorni consecutivi con scarsi risultati. Resta infatti ancora molto detrito da rimuovere per assicurare un passaggio sicuro, me l’aria continua a soffiare in maniera sempre più consistente ed entusiasmante.
Nonostante il tentativo di scavo fallito – ma solo per ora – i giorni di permanenza in tenda al campo avanzato sopra Mavrovo hanno permesso alcune ulteriori battute dell’altipiano ed il ritrovamento di un ulteriore e suggestivo ingresso. Si tratta di un bel pozzo di 36 m che si apre a quota 2070 m s.l.m. su monte Bistra e che abbiamo ribattezzato come il monte. Alla sua base purtroppo troviamo un bel cumulo di neve giacente sull’ennesima frana di pietre e questa volta, per la serie non c’è mai limite al peggio, anche quintali di guano di cornacchie che trovano riparo e nidificano sulle pareti del pozzo.
Il ritrovamento tuttavia, ricarica il morale a terra dei tre stanchi scavatori. Dopo quattro giorni di faticose ascese giornaliere sotto un cocente sole e quattro notti ghiacciate, si ritorna al campo base a Vrutok con nuovi sogni a cui dare forma e propositi che speriamo di poter portare avanti nel prossimo campo.
PADALISHTE – Grotta John Wayne
A sud-est della periferia di Gostivar si imbocca la strada che, attraverso una valle verde e lussureggiante, conduce a Padalishte. Qui, tra boschi rigogliosi di faggi, roverelle, betulle e noccioli e ampi fossi letteralmente sepolti da felci e rovi, si imbocca una strada sterrata decisamente malmessa utilizzata da tagliatori di legna e percorsa dai loro camion stracarichi. Riteniamo che percorrerla con dei mezzi in inverno o quando piove molto debba essere alquanto complicato se non impossibile. La strada che sale senza troppa pendenza tra questi boschi è di un terriccio argilloso di color bruno, in cui affiorano ogni tanto scisti e marne assai poco invitanti per una ricerca speleologica.
Tuttavia, giunge a Jeton (gruppo speleologico macedone Korabi) la segnalazione da un suo zio di un pozzo molto profondo proprio tra questi boschi selvaggi. Jeton e Kimi nella scorsa primavera si erano fatti accompagnare al buco che effettivamente si presenta come un inghiottitoio di forma circolare che sembra decisamente scendere parecchi metri tra grandi faggi del bosco. Jeton e Kimi lo scesero per circa 40 m fermandosi per mancanza di corde. Dalle foto che ci inviarono, decidemmo di ritentare nuovamente insieme nel corso della spedizione del 2019.
Ritorniamo quindi con un numeroso gruppo il 18 agosto 2019. Ad accompagnarci anche il curiosissimo zio di Jeton, un personaggio a dir poco singolare: un vecchio avventuriero che si presenta su uno scassone di motocicletta forse più vecchia di lui. Indossa un vecchio cappello da cow-boy e sulla strada polverosa sale come un pazzo, quasi fosse a cavallo, dove invece noi con le nostre auto 4×4 abbiamo più di una difficoltà. Lo ribattezziamo simpaticamente John Wayne e i suoi modi originali ci strappano molte risate.
La nostra allegra brigata suscita l’interesse di diversi abitanti di valle che, incuriositi, vengono a conoscerci e si offrono di accompagnarci. Tra questi Nando, un albanese che parla molto bene l’italiano. Si presenta come una sorta di capo villaggio e ci dice che il terreno che stiamo percorrendo è di sua proprietà. Dopo una breve e simpatica contrattazione ci accordiamo che, nel caso avessimo trovato oro nella grotta, lo avremmo completamente lasciato al villaggio. Raggiungiamo finalmente il pozzo.
Iniziamo ad armare la discesa e notiamo subito che la verticale scende in modo deciso. A circa metà del pozzo, la sua forma diventa sempre più ampia e si aprono ai suoi lati due grandi finestre che lasciano intravedere altri ambienti. Continuiamo la discesa terminando dopo una verticale stimata di 100 m su un grande salone che scampana in maniera allungata nel vuoto. Ci troviamo in un grande meandro-sala. Iniziamo, quindi, a cercare le possibili prosecuzioni: da un lato grandi blocchi di frana ostruiscono ogni possibile passaggio, dall’altro un pozzetto sembra scendere alcuni metri su un’altra frana. Non avendo ulteriore materiale a nostra disposizione, decidiamo di uscire e ritornare in seguito.
Nel risalire, notiamo meglio che le grandi finestre a metà pozzo, che pensavamo scendessero sempre nel grosso meandro alla base, in realtà non comunicano con l’ambiente principale. Le nostre luci puntate dal basso verso l’alto su un camino che si innalza per circa 40 m dalla base del pozzo, a pochi metri di distanza dalla verticale principale, non si vedono apparire da queste finestre, e quindi con molta probabilità introducono in ambienti differenti.
Usciamo entusiasti accolti dal gruppo di accompagnatori locali, ma che non vedendoci tornare con tesori vari restano un po’delusi, sebbene affascinati da quell’inaspettata giornata che aveva spezzato la loro rurale routine. Mostriamo loro qualche foto di quanto visto e ci accordiamo per poter tornare il giorno successivo. Decidiamo di ribattezzare la grotta “John Wayne” in onore del pazzo segnalatore che ci ha condotto fin lì, e che, come fatto in salita, durante il tragitto di ritorno sulla polverosa strada in discesa, mentre noi si continuava a faticare con le auto nel tentativo di evitare fossi, buche e danni vari, ci sorpassa con la sua moto allegramente e a tutta velocità, guidando con una mano e salutandoci con l’altra… chapeau!!!
L’indomani torniamo per rilievo, fare alcune foto del pozzo e cercare eventuali prosecuzioni. Ad accoglierci questa volta solo una piccola delegazione locale, composta da Nando e suo cognato che, già il giorno precedente, ci avevano comunicato la conoscenza di altri due buchi simili.
Mentre un gruppo rientra quindi in grotta per nuova esplorazione e documentazione, un altro si dedica ad una battuta esterna. Troviamo grazie a Nando e all’altro accompagnatore altri due ingressi nei pressi del grande pozzo. Purtroppo, però, questi scendono solo pochi metri terminando su frane e scopriamo che sono stati già oggetto di scavi improvvisati da parte di cercatori d’oro. All’interno troviamo, infatti, materiale da scavo abbandonato e strutture realizzate con tronchi a mo’ di impalcatura. Notiamo comunque che nella zona sono presenti molti antichi calcari che affiorano un po’ovunque. Decisamente un paesaggio differente rispetto a quello osservato lungo gran parte della strada sterrata.
Nel frattempo, in grotta un gruppo si occupa di rilievo e foto, mentre un altro tenta di trovare possibili prosecuzioni. Si scende il pozzetto individuato il giorno precedente che si trova alla base del grande pozzo. Esso risulta effettivamente scendere per 4 m come ipotizzato ed introduce in un ambiente più piccolo di quello soprastante, che stringe tra alcuni blocchi di frana verso uno stretto passaggio. Al di là sentiamo scorrere acqua e un certo stillicidio. Il passaggio necessita comunque di disostruzione e non abbiamo materiale necessario con noi. A questo punto, prima di intraprendere qualsiasi opera di scavo, non ci resta che provare ad armare dei traversi a metà pozzo che possano condurci alle finestre notate, nel tentativo di riuscire a bypassare le frane. Terminiamo la giornata completando il rilievo che conferma il pozzo di 100 m esatti ed una profondità della grotta complessivamente di 105 m.
Il giorno seguente un gruppo di quattro persone tenta quindi di armare il traverso e trovare nuove vie da esplorare. Si inizia ad armare verso una delle due finestre, ma capiamo che tentare altri traversi in un’unica giornata richiederebbe troppo tempo, energie e rischi inutili. In particolare, una di queste finestre si apre sotto una cengia che spancia e attrezzare qui un traverso appare più lungo e complicato di quanto stimato. Si decide quindi di tentare per ora la via più semplice. Dopo qualche fix, che permettono di avvicinarsi il più possibile e una spendolata sulla corda, l’attrezzista del gruppetto riesce ad afferrare le pareti del passaggio. Purtroppo, dopo essere avanzati di qualche metro, non resta che constatare che il percorso non conduce da nessuna parte, come aimè molto spesso accade quando si sceglie la via più semplice e meno faticosa.
Si risale, quindi, studiando meglio come poter realizzare il prossimo traverso e poter raggiungere l’altra possibile prosecuzione. Non resta a questo punto che rimandare l’armo di questo nuovo traverso e il tentativo di disostruzione alla base del pozzo come prossimi obiettivi della futura spedizione nel 2020.
KORAB
Tra gli obiettivi prefissati per la spedizione 2019, avevamo inserito la perlustrazione di una zona al confine dell’Albania, un’area a noi ancora sconosciuta. Dalle immagini satellitari si presenta come una zona selvaggia e non troppo facile da raggiungere con le auto. Si decide quindi di organizzare una battuta di due o tre giorni, caratterizzata da notti in tenda e lunghe camminate.
L’area che attira più il nostro interesse è quella che si apre lungo i versanti del monte Korab che, con i suoi 2764 m, è la montagna più alta della Macedonia del Nord. Ciò che più ci incuriosisce dalle osservazioni satellitari, pur non essendo state segnalate qui grotte e ricerche speleologiche – almeno recenti -, è un enorme valle bianca, chiusa come un grande imbuto, che lascia intuire una grande presenza di rocce calcaree affioranti.
Decidiamo quindi di partire in cinque con due auto, attrezzati per dormire in tenda oltre i 2000 m e consapevoli del fatto che, appena qualche giorno prima nei “soli” 1700 m di altitudine del campo a Mavrovo, più volte ci eravamo svegliati con il paesaggio mattutino completamente ghiacciato. All’ultimo si aggiunge al gruppo un ragazzone di nome Arianit, professore e ricercatore di chimica presso l’Università di Tetovo e conoscente di Jeton, desideroso di incontrarci e di poter vedere Korab.
Partiamo nella tarda mattinata del 21 agosto e, come previsto, ci aspetta un lungo tragitto in auto. Lasciata dopo circa quaranta minuti di viaggio la strada asfaltata, imbocchiamo una sterrata che, costeggiando un torrente in una bellissima valle tra alte pareti calcaree, ci dovrebbe condurre in un remoto stazzo di pastori posto alle pendici della catena che forma il massiccio di Korab. Lungo il tragitto incontriamo una jeep della polizia che sorveglia quella strada di frontiera. Sono presenti infatti in questa valle ben due stazioni di polizia. Dopo una breve chiacchierata con gli agenti a cui spieghiamo chi siamo e dove siamo diretti, gli stessi ci indicano di fare una piccola deviazione. A detta loro, in una parte dove il canyon si stringe, esso si biforca e, imboccando una strada che conduce al confine col Kosovo, si possono osservare molti buchi in parete. Decidiamo di non lasciarci sfuggire l’occasione e deviamo. Effettivamente, dove esattamente indicatoci, possiamo individuare i buchi segnalati. Sono in pareti alte, alcuni oltre 120 -130 m dalla strada. Effettuiamo un sopralluogo veloce della zona, inerpicandoci ne raggiungiamo un paio, osserviamo cose decisamente interessanti, scendiamo rapidamente confidando di tornare con più calma nei giorni seguenti.
Riprendiamo la strada per Korab. Impieghiamo altre due ore circa per raggiungere lo stazzo nei pressi di Nistrovski Korab, ad oltre 1900 m, dove siamo decisi a campeggiare. La strada nell’ultimo tratto si presenta decisamente più rovinata e, a causa delle molte pietre che spuntano fuori dal terreno, foriamo anche la gomma di un’auto. I vari imprevisti, piacevoli e non, ci fanno giungere alle 18:00 circa allo stazzo. Montiamo rapidamente le tende e ci prepariamo per una suggestiva cena sotto il cielo stellato. I pastori ci accolgono curiosi e, dopo le presentazioni di rito, vedendoci armeggiare con bombola e pentole, ritornano da noi con un bel piatto di fresco formaggio. Ancora una volta, come sempre avvenuto in qualsiasi luogo noi siamo stati in questi quattro anni, questa gente dimostra con noi un’immensa e spiazzante ospitalità. Nonostante le loro condizioni di vita povere e frugali, non mancano mai nei nostri confronti gesti di estrema generosità.
Dopo una cena a base di zuppa di riso e formaggio, ci infiliamo nel sacco a pelo. La notte trascorre tranquilla. Non fa nemmeno freddo e il vento, che ora ha cambiato direzione, soffia ora da sud-est e garantisce temperature miti.
Ci svegliamo di buon mattino con ben 20 cani da pastore che abbaiano reclamando la loro “colazione”. Appena affacciati dalla tenda, un pastore che si accingeva a prepararsi alla mungitura mattutina, ci fa cenno di raggiungerli nella loro capanna per il caffè. Sono quattro, uno albanese-macedone e tre albanesi. Uno di loro parla un po’ di italiano; è occasione per chiedere se conoscono grotte o buchi nella zona. La risposta negativa non è incoraggiante, tuttavia uno di loro ci segnala che una grotta, in cui ricorda esserci entrato da giovane con le pecore per ripararsi, si troverebbe sopra il villaggio di Banjishte, non lontano da Debar. Annotiamo…
Iniziamo a prendere il sentiero che dovrebbe condurci sopra Korab. Arianit, infastidito dall’abbaiare notturno dei cani e forse troppo eccitato da quella sua prima esperienza in tenda, aveva trascorso la notte in auto. Evidentemente non ha dormito molto e gli effetti si notano subito. In un primo momento è molto entusiasta, ma poi perde subito contatto col resto del gruppetto. Lo attendiamo più volte, ma chiaramente è stanco. Inizia anche a lamentare dolore al ginocchio e i circa 600 m di dislivello, sulle lunghe creste che ci separano dal vallone che vorremmo esplorare, lo fanno desistere subito. Probabilmente non si aspettava che l’avventura in cui si era buttato potesse essere così impegnativa. Felice comunque per quei panorami che in parte aveva avuto la fortuna di ammirare, decide di tornare sui suoi passi e di far compagnia ai pastori rimasti allo stazzo.
Effettivamente le montagne e le creste isolate e selvagge che ci circondano sono di rara bellezza. Affilate, aguzze ricordano paesaggi da cartolina delle nostre care Alpi.
Giungiamo dopo qualche ora di cammino alla sella che dovrebbe condurci alla grande valle-imbuto che ci interessa. La valle si apre sotto di noi in tutta la sua maestosità. Ampia, lunga e leggermente scoscesa. Un enorme plateau di calcare di circa 1,5 km2 in cui piccoli canyon, pinnacoli di roccia, inghiottitoi, doline e karren si perdono a vista d’occhio. Percorrendolo ci si smarrisce tra forme carsiche superficiali di ogni genere.
Un paesaggio inconsueto e di rara bellezza. I segni di antica attività glaciale si evidenziano un po’ovunque. Il pensiero fa sognare a quando, un tempo, al disgelo di immensi volumi di ghiaccio, grandi torrenti scorrevano luccicanti su questa superficie e venivano inghiottiti in questi imbuti sparsi un po’ovunque, per continuare poi il loro percorso in impetuosi fiumi sotterranei. Il processo ripetuto per migliaia di anni ha modificato lentamente il paesaggio. Antiche grotte si sono così lentamente formate e lentamente si sono poi disfatte nel tempo, tritate e macinate da continui cicli di gelo e disgelo e sconvolgimenti tettonici. Questi effimeri e temporanei torrenti, generatisi nelle fasi di alternanza di periodi di fusione glaciale e nuove glaciazioni, nella loro azione millenaria, hanno trascinato con sé milioni di tonnellate di detrito morenico. Metri cubi e metri cubi di rocce disgregate che, nel corso del tempo, hanno chiuso inesorabilmente ogni varco a noi accessibile; possiamo ora solo ipotizzare e immaginare queste antiche gallerie sotterranee. Di esse non ne restano che segni superficiali, intuibili nella morfologia del territorio e scolpiti nelle rocce. Tra grandi pietre e sassi affiorano talvolta pezzi di calcite e frammenti di antiche concrezioni, come relitti riportati alla luce dall’erosione e dal tempo.
Ai piedi della valle un grande piano di assorbimento di circa 100˙000 m2, delimitato da tre versanti del massiccio e su un lato da immensi blocchi di frana, genera quello che noi vedevamo come un imbuto, lasciando intuire sotto di esso “nuove” vie delle acque sotterranee.
Ritorniamo sui nostri passi voltandoci più volte ad ammirare e rimirare questo suggestivo e sorprendente paesaggio lunare. Giungiamo allo stazzo in cui siamo accampati che è ormai quasi sera ed appena in tempo per evitare un grosso acquazzone che, tra forti scrosci di pioggia e fragorosi boati di tuoni e fulmini, ci costringe per un’ora nelle tende. Concluso il temporale, considerate le pessime condizioni in cui avremmo dovuto passare la seconda notte, decidiamo di smontare rapidamente tutto e ritornare a valle quella sera stessa, lasciando quel posto incantato e sospeso nel tempo a pastori, armenti e cani.
BANJISHTE
Il giorno successivo al nostro rientro da Korab, per riposarci un po’- per così dire, decidiamo di raggiungere il paesino di Banjishte per verificare la segnalazione fattaci dal pastore. La zona in realtà è già stata, anche se solo in parte, battuta negli scorsi anni da alcuni di noi. Nell’area più prossima al punto indicatoci emergono infatti diverse grandi sorgenti sulfuree. Una di queste, proprio nel paesino segnalato, viene captata e utilizzata da un grande centro termale. Le acque di scarico defluiscono poi, ben visibili, scorrendo a pelo libero all’ingresso del paesino lungo un fosso al cui interno si sviluppano colonie filamentose di solfobatteri e da cui debordano bianche colate calcitiche. Ad attenderci un abitante del posto, papà di una studentessa di Arianit, che ci ha detto conosce bene la zona e si è detto disposto ad accompagnarci.
Iniziamo a seguire la nostra guida lungo una valle che sale in direzione di un grande anfiteatro di versanti montuosi e ci indica che dovremo salire per circa 600 m di dislivello. Il nostro accompagnatore, seppur non giovanissimo, si muove con passo decisamente agile, facendosi largo di tanto in tanto con una grande roncola tra rovi, noccioli, cespugli di lamponi ed alta vegetazione. Ci conduce sicuro, senza la minima esitazione sulla direzione da prendere, a quello che risulterà essere solo un grande antro al cui all’interno spiccavano due grandi buche scavate da cercatori d’oro. Sulle pareti dell’ingresso, completamente annerite dal fumo di focolai di pastori e frequentatori vari, scritte un po’ovunque, segno che il posto è oggetto di frequentazioni massiccia di visitatori occasionali. L’accompagnatore ci dice di non conoscere altre grotte nella zona e ci fidiamo ciecamente dato che conosce quella parte di mondo come le sue tasche. Ci dice però che, d’inverno, dove quassù non è mai venuto per la troppa neve, da casa sua a Debar, spesso gli è capitato di vedere alte colonne di vapore bianco – lui li chiama gas e gli abitanti del luogo credono di essere su un vulcano- alzarsi da questi boschi. Annotiamo e iniziamo a scendere di fretta con il cielo che diventato improvvisamente grigio minaccia temporale. Questa volta non riusciamo a sfangarla come il giorno precedente a Korab e ritorniamo alle auto fradici sotto un violento acquazzone estivo.
STREZIMIR
Il 25 agosto, l’ultimo giorno utile della spedizione prima di prepararci al rientro in Italia, decidiamo di sfruttare l’occasione per tornare a dare una occhiata agli altri buchi notati nel canyon che conduce a Korab. Nei giorni precedenti due di noi, riusciti ad arrampicarsi fino a raggiungere una di queste grandi aperture, avevano potuto fare osservazioni decisamente interessanti. Infatti, seppur dal punto di vista puramente speleologico-esplorativo, queste cavità non sembrano raggiungere dimensioni ed estensioni sorprendenti, senza dubbio le stesse sembrano presentare elementi degni di rilevanza sia di carattere archeologico che antropologico.
Ci dividiamo in due gruppi e cerchiamo di raggiungerne qualcuna. Sono gallerie a forma semi-ellittica o circolare, ormai tagliate e separate dal canyon, e probabili frammenti di un antico sistema. Da un terrazzamento, qualche metro sotto una delle grandi aperture raggiunte, si può notare sul versante opposto un altro antro. Davanti ad esso sono disposte molte pietre, come a formare un muretto: è chiaramente opera di attività umana ed esattamente la prova di quanto ipotizzato.
Due gallerie raggiunte si presentano larghe circa 2-3 m ed alte almeno un paio; in esse molte pareti sono annerite da fumo. Sono ben visibili inoltre le ceneri di antichi focolai e diverse ossa animali sparse un po’ ovunque. Documentiamo ed iniziamo a scendere, ritenendo che senz’altro la zona merita di essere oggetto di esplorazioni e studi più approfonditi. Giunti a metà delle pareti, nel tentativo di cercare una via di discesa più semplice, notiamo altre due aperture più piccole. Entriamo. All’interno segni di scorrimento idrico non troppo vecchi e presenza di fango umido che lascia affiorare, in alcuni punti, diverse ossa umane. Notiamo come una di queste si sia anche concrezionata. Decisamente vale la pena tornare più organizzati per nuove esplorazioni ed indagini.
Abbiamo con noi il drone, utile a perlustrare le pareti alla ricerca di possibili cavità interessanti o segni di antica attività antropica. Avvicinarsi col drone alle pareti non è cosa semplice data la vegetazione, ma arrampicarvisi è addirittura peggio.
Tuttavia, uno di noi con più abilità da climber decide di tentare di raggiungere il buco al cui ingresso vi è il muretto; gli altri intanto, sotto di esso, cercano altri eventuali pertugi. Il primo, con non poca difficoltà, riesce a raggiungere la grotta del muretto: la cavità chiude praticamente subito, ma in essa molta vegetazione secca e pagliericcio sembrano indicare un giaciglio. Nel frattempo, qualche decina di metri più in basso, in un pertugio assai meno invitante tra sassi franati, un altro di noi riesce ad infilarsi. Questa volta lo stupore è davvero grande. Diverse gallerie si aprono davanti a noi. Antiche condotte, che mostrano nelle morfologie una loro evoluzione nel tempo, evidenziando una probabile formazione paragenetica, si dipanano bianche e luccicanti con concrezioni, vaschette e colate calcitiche. Le gallerie, che si sviluppano a tratti ampie e ricche di concrezioni, presentano un pavimento di calcite che in più punti sembra frantumato in maniera innaturale. In particolar modo, ci colpiscono due elementi individuati in una di queste diramazioni dove la grotta stringe e chiude. Su un lato della galleria, lungo il piano di calpestio, un sedimento di brecce alluvionali sembra chiaramente scavato in maniera anomala e non naturale. Poco distante da questa buca notiamo, inoltre, una lastra di calcite a forma triangolare di circa 1m2 di superficie e di 6 cm di spessore che sembra essere stata asportata dal piano di calpestio ed appoggiata alla parete della condotta. La mancanza di segni di passaggio che possano evidenziare attività antropica recente e la presenza di ossa umane lungo alcune diramazioni della grotta pongono molti quesiti e ci inducono a considerare la grotta come un luogo estremamente interessante dove sicuramente svolgere ricerche e studi più approfonditi nel prossimo futuro.
TAJMISTE (Attività mineraria)
Il 15 agosto effettuiamo la nostra prima ricognizione alla Miniera di ferro di Tajmiste, presso la municipalità di Kicevo. La miniera si apre sulle pendici orientali del monte Bistra. Il deposito minerario si estende da un’altitudine di 1110 m fino a 1645 m sul livello del mare. La miniera è stata coltivata dal 1967 al 1989, secondo le testimonianze raccolte fra la popolazione del villaggio di Tajmiste. La coltivazione ha investito un’area enorme e la ricognizione ha evidenziato che la stessa è stata effettuata a cielo aperto; questo ha evidentemente impedito ogni possibilità di esplorazione in sotterraneo.
Decidiamo quindi di rivedere completamente il piano di documentazione, in quanto è necessario trovare spunti diversi da quelli normalmente sfruttati per la narrazione sotterranea. L’area di coltivazione è relativamente lontana, circa 10 km dalla stazione ferroviaria dove veniva caricato il ferro per essere inviato alla fonderia di Skopije. Optiamo per una narrazione del percorso del ferro attraverso la rivisitazione degli antichi edifici e alla ricerca di eventuale materiale iconografico storico da poter utilizzare.
Grazie ad una ricerca degli antichi edifici lungo la presumibile linea di trasporto, dedotta dalla cartografia topografica della ex-Jugoslavia, ritroviamo numerosi manufatti in pessimo stato di conservazione e di difficile interpretazione. Rileviamo le coordinate di ciascun elemento significativo tramite GPS, che posizioniamo con il software ArcGis su una cartografia topografica digitale. Al termine della lunga ricerca, scriviamo una scaletta delle riprese da effettuare nei giorni seguenti.
Il 18 agosto cominciano quindi le riprese video, partendo dai cantieri sommitali, affiancando alle nostre riprese quelle effettuate con il drone. Durante la giornata viene scoperta una galleria di servizio al trasporto del materiale di 235 metri. Essa permetteva di trasportare il materiale da un imbuto di raccolta ad uno scaricatore che lo rovesciava alla partenza della teleferica; il ritrovamento permetterà di avere nel video anche una piccola porzione di sotterraneo.
Il 20 agosto interrompiamo le riprese alla miniera di ferro per una visita ricognitiva alla Cava di gesso in sotterraneo di Debar, il secondo obiettivo della spedizione sul versante minerario. La cava in sotterraneo è molto spettacolare, con ambienti relativamente grandi e molto scenografici. La cava è in concessione alla KNAUF, che ha sospeso le estrazioni in sotterraneo, ma continua l’estrazione in superficie. Si apre in depositi gessosi risalenti al Trias, secondo le spiegazioni dell’accompagnatore che parla una miscela stravagante di tedesco, inglese, italiano e serbo… Sembra essere presente in essa una serie di deposizione che parte dal basso dall’anidrite e arriva ad un gesso microcristallino, definito in loco come alabastrino. All’interno dell’anidrite si possono ammirare grandi vene di Lapis Specularis bianco, completamente trasparente, con cristalli metrici. Scattiamo qualche foto dimostrativa con il telefono, in attesa di tornare a girare video e a fare foto più professionali. Malauguratamente non verrà autorizzata alcuna visita successiva.
Il 21 agosto riprendiamo le riprese in esterno a Tajmiste. Effettuiamo anche nuove riprese con il drone. Durante una di queste, ci si rende conto che il pilastro a fianco del grande imbuto di raccolta del materiale è cavo e, presumibilmente, dà accesso a stanze sotterranee sotto l’imbuto. Comincia lentamente a delinearsi, seppur in maniera non del tutto chiara, uno schema di trasporto. Effettuiamo riprese della stazione e della galleria con tramogge che consentivano il carico del materiale; l’esplorazione della zona limitrofa evidenzia la presenza di una conoide di materiale ferroso sminuzzato e cernito, ciò induce a pensare all’impianto presente all’interno del paese come a un frantoio. Purtroppo, l’impianto non è accessibile, è recintato e sorvegliato da cani.
Il 22 agosto effettuiamo la discesa del pilastro cavo, riprendiamo dall’esterno e documentiamo con soggettiva. La discesa di una ventina di metri conduce all’interno di un grande magazzino sotterraneo, nel cui pavimento si aprono grandi tramogge che consentivano lo scarico del materiale nella galleria di 235 metri e il suo trasporto all’esterno.
Il rilevamento dei punti significativi evidenzia la necessità di seguire materialmente nel bosco tutto il tracciato, perché il solo accesso spot non consente una visione esaustiva. Il 23 agosto decidiamo quindi di percorrere il tracciato ipotizzato. Durante il cammino, piuttosto arduo a causa dell’abbandono e della vegetazione rigogliosa, vengono scoperti manufatti molto interessanti e si fa strada l’idea che il trasporto non fosse effettuato con carrelli ed una cremagliera, ma con un nastro trasportatore della larghezza di circa un metro. Viene seguito l’intero percorso, dalla breve galleria di partenza, ai piedi dello scarico della teleferica fino al villaggio di Tajmiste. La presenza di un paio di stazzi di pecore non consente di avvicinarsi all’ultimissimo tratto prima del villaggio.
L’osservazione di tutto il materiale rilevato e della carta topografica induce a pensare che il nastro trasportatore uscisse dal frantoio in galleria per ricomparire a giorno un’ottantina di metri a nord-est dell’impianto. Dopo una ricerca, seguendo da valle il sedime del nastro trasportatore, rintracciamo la galleria, unico tratto del percorso dove il nastro è ancora presente. Viene così confermato in modo inoppugnabile che il trasporto fino alla stazione ferroviaria era effettuato con un primo tratto di 300 metri su nastro trasportatore sotterraneo, un tratto di 1325 metri in teleferica e i restanti circa 5 chilometri con nastro trasportatore esterno.
TAJMISTE (Grotta dei Teschi)
Questa grotta, croce e delizia delle nostre precedenti spedizioni, riesce continuamente a sorprenderci. Dopo la sua scoperta e il ritrovamento all’interno di numerosissimi resti umani, avevamo concordato con le autorità macedoni che non si sarebbe proseguito nella sua esplorazione fino al termine delle ricerche anatomopatologiche e archeologiche; studi che avrebbero dovuto terminare con questa spedizione.
Ci rechiamo dunque alla grotta muniti di tutto il materiale per eseguire una stratigrafia totale (circa 1,5 metri) del sedimento presente nella parte iniziale di una sala. Appena entrati, con nostro grande stupore, ci accorgiamo che il sedimento non c’è più: non rivoltato da tombaroli come era già capitato, ma sparito completamente. Ben presto ci accorgiamo che questa “sparizione” altro non era che il frutto di un dilavamento.
Febbrilmente percorriamo tutti i cunicoli per scoprire che, in una nicchia, si era aperto un nuovo cunicolo. Il più minuto dei presenti subito ci si infila rinvenendo altri resti umani ma ben presto la sua avanzata viene bloccata: uno spesso laminatoio accompagnato da concrezioni laterali ne ostruiscono il passaggio. Passiamo il resto della giornata a compiere quello che ci eravamo prefissati: un gruppo esegue dei saggi stratigrafici mentre l’altro effettua dei campionamenti paleomagnetici su rocce, speleotemi e sedimenti. La sera, tornati al campo, non riusciamo a non pensare alla portata d’acqua che ha disostruito il passaggio e dilavato il sedimento.
Il mattino seguente ripartiamo con due obiettivi: ottenere una visione d’insieme dell’esterno della grotta e provare a forzare il passaggio. Per ottemperare al primo punto utilizziamo un drone, ma il compito si mostra più arduo del previsto. Infatti, l’impervietà dell’area di accesso e la fitta vegetazione rendono l’utilizzo dell’apparecchio estremamente complicato; l’impresa riuscirà solo grazie alle grandi capacità del “pilota”. Di nuovo dentro, muniti di mazzetta, scalpello e trowel, proviamo a forzare il passaggio. Dopo qualche ora di lavoro siamo avanzati poco più di un metro e realizziamo che, per passare, necessitiamo dell’artiglieria pesante; quindi desistiamo. La sera visionando le immagini del drone decidiamo di dedicare ancora un giorno alla Grotta dei Teschi; una missione leggera composta solo da due persone.
Così il mattino seguente siamo di nuovo sulle pareti esterne ricoperte di muschio e una grande quantità di foglie secche. Visioniamo e rileviamo buchi scoperti gli anni precedenti e ai quali non avevamo dato importanza e cerchiamo di salire ancora più in alto ma il rischio di “volare” è grande. Ci lasciamo così, con la promessa di ritornare di nuovo per scoprire non solo l’utilizzo antropico di questa grotta ma anche di svelare il sistema idrico che essa ancora ci cela.
Rientriamo in Italia il giorno 28 agosto, dopo due giorni di estenuante viaggio, anche quest’anno con un grande bagaglio di esperienze, emozioni e con sentieri già tracciati per gli obiettivi futuri. Ogni volta questo Paese, la sua gente, i suoi selvaggi territori e le sue stridenti contraddizioni regalano avventure, incontri ed amicizie per noi indimenticabili.